L’evasione internazionale

Negli ultimi tempi sono balzati all’onore delle cronache personaggi famosi (Dolce e Gabbana, la famiglia Marzotto, la famiglia Riva) indagati per aver evaso le imposte italiane attraverso operazioni fiscali aventi carattere internazionale.
Accanto ai super ricchi, tuttavia, vi sono sia imprese italiane che imprese estere (anche multinazionali, non da ultima Google, per la quale è in corso un’indagine tributaria) che secondo il Fisco non tassano in Italia i proventi qui realizzati, trasferendoli attraverso catene societarie in Paesi aventi una tassazione più morbida.
La Guardia di Finanza nei soli primi cinque mesi del 2013 ha contestato ai contribuenti per sofisticate manovre elusive a carattere internazionale 5,5 miliardi di euro (di cui 4,5 miliardi da residenze fittizie); dal 2008 (5,2 miliardi) al 2012 (17,1 miliardi), la crescita è stata continua.
I paesi maggiormente coinvolti nelle operazioni fiscali elusive sono il Lussemburgo, l’Irlanda, la Svizzera, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, il Principato di Monaco, San Marino e i cosiddetti paesi black list.

Un fenomeno solo italiano?
Tax Research, organizzazione britannica a cui è stato commissionato uno studio dal gruppo socialista-democratico del Parlamento europeo, ha calcolato che nella Ue l’evasione fiscale è pari 860 miliardi l’anno, mentre l’elusione è di 150 miliardi. Al primo posto, manco a dirlo, si colloca l’Italia con 180 miliardi, seguita da Germania (158), Francia (120), Regno Unito (74), Spagna (72).
Il settore bancario del Lussemburgo, paese Ue, possiede quasi 3 miliardi di dollari di attività, 22 volte più del proprio Pil (Prodotto interno lordo).
Nonostante l’annuncio del primo ministro (dimissionario) di porre fine al segreto bancario per le persone fisiche a decorrere dal 2015, oggi la gran parte delle società lussemburghesi è controllata da società domiciliate nei paradisi fiscali, anche perché la legislazione locale permette l’emissione di azioni al portatore (quindi non nominative come accade negli altri paesi), rendendone quasi impossibile la conoscenza dell’effettivo proprietario.
L’organizzazione francese Ccfd-terre solidaire ha studiato la dislocazione geografica delle filiali delle prime 50 società quotate europee, che nel 2012 hanno cumulato 208 miliardi di euro di profitti con un giro d’affari di 4.500 miliardi, pari al 24% del Pil europeo.
E’emerso che i grandi gruppi possiedono filiali nei paradisi fiscali o nei paesi a bassa tassazione in misura sproporzionata rispetto ai potenziali clienti.
Numerosissime le filiali in Olanda (943) che garantisce una bassa tassazione ad alcuni tipi di società, nel Delaware, stato degli Usa, (791), in Lussemburgo (557), Irlanda (444), ma anche nelle Isole Cayman (374), Jersey e Gurnesey nel Regno Unito (335), Svizzera (283), Hong Kong (234), Singapore (187), Bermuda (103).
La stessa organizzazione ha verificato che il 18% dei profitti di Deutsche Bank viene ottenuto in soli 4 filiali in Lussemburgo, che la filiale di Hong Kong della banca francese Société Générale ha realizzato un profitto di 300 milioni di euro su un giro d’affari di 530 e quella di Londra della medesima banca 37 milioni a fronte di ricavi per 34 (più profitti che ricavi!).
Nel 2012 secondo i calcoli del Boston Consulting Group, le ricchezze finanziarie custodite nei paradisi fiscali hanno raggiunto la cifra record di 8.500 miliardi: il Pil di Germania, Francia e Italia messi insieme.
Sebbene non sia automatico che le ricchezze detenute in tali paesi siano tutte di origine illecita, la massa di denaro è comunque imponente e fa, indubbiamente, riflettere.

Le soluzioni
I paesi del G8 e del G20 conoscono bene la situazione e sembrano uniti in un maggior impegno a rafforzare la cooperazione tra amministrazioni finanziarie, da realizzare anche attraverso lo scambio di informazioni su operazioni finanziarie transnazionali, al fine di individuare chi siano i beneficiari effettivi che si celano dietro strutture finanziarie e societarie complesse.
Tornando a Google, anche la Gran Bretagna ha messo sott’occhio il colosso informatico, che ha fatturato 18 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2011, lamentandosi del fatto che abbia pagato imposte sul suolo britannico per “soli” 16 milioni di euro, in quanto la sede della società è in Irlanda.
Bisognerà vedere se alle parole, come non è avvenuto finora, succedano i fatti.
Come detto, alcuni paradisi fiscali hanno sede nel territorio di paesi della Ue e degli Stati Uniti e, tra i loro clienti, annoverano i maggiori gruppi economici mondiali.
Prevarrà la volontà delle agenzie fiscali dei paesi membri (alcuni, peraltro) o la forza delle lobby che controllano i principali gruppi economici europei e mondiali?
Intanto, il consigliere federale svizzero Eveline Widmeer-Sclumpf ha ricordato che è competenza dell’Ocse (organizzazione in cui la Svizzera ha diritto di parola) determinare le modalità di scambio delle informazioni fiscali e che comunque l’accordo “non avverrà con tutti i Paesi, ma solo con una cerchia, nel rispetto di terminate condizioni”.

paradisi-fiscali

Luca Leidi
Dottore commercialista

Telefono Studio: +39 (0)35 221161

luca.leidi@tomasiassociati.it

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